C’ERA
UNA VOLTA…
Alle
pendici del Monte Fuso abitava e lavorava un carbonaio di nome Giovanni.
Aveva imparato il mestiere a dodici anni, perché seguiva il padre nei
boschi di faggi e di castagni che ricoprivano le pendici del monte. Qui
lo aiutava nel taglio della legna e nella raccolta delle foglie secche.
Ne faceva dei mucchi giganti e poi ci si tuffava dentro, quasi fossero
un soffice materasso. Divenuto adulto decise di continuare questo
mestiere.
Giovanni aveva la pelle nera come le piume di un corvo, le sue mani
calde e nere erano affaticate dal lavoro, la cenere gli era entrata nei
pori delle mani e ora non erano più bianche come prima.
La
sua famiglia era molto povera e numerosa: doveva sfamare i genitori
anziani, la moglie e due figli. Spesso il pasto era costituito solo da
patate e il vecchio genitore si disperava di non essere più in grado di
aiutare il figlio a sostenere la famiglia.
Una sera, seduti a tavola, Giovanni disse alla moglie che l’indomani
sarebbe andato al monte Fuso per iniziare una nuova carbonaia: avrebbe
voluto portare con sé il ciuco e il carretto, ma, forse, sarebbero
stati più utili a casa.
Salì sul monte e trovò uno spiazzo che sembrava fatto apposta per lui
e decise di fermarsi lì.
Intorno c’era un bosco di faggi e castagni coi rami spogli ripiegati
su se stessi come se volessero inchinarsi a lui per mettersi a sua
disposizione. Era stanco, ma volle ugualmente iniziare il suo lavoro. Si
infilò gli scarponi e prese la sua accetta affilata a tal punto da
brillare.
Con la prima legna tagliata si dedicò alla costruzione della capanna:
era costituita da un telaio di tronchi di faggio disposti a formare un
trapezio, ricoperto da un manto di zolle che, con la loro scorza erbosa,
avevano il compito di mantenere caldo all’interno e di non far passare
l’acqua.
Con le sue abili mani costruì anche gli utensili per la cucina e, a
lume di candela, consumò la sua prima cena.
Cucinò
un po’ di polenta con la farina gialla e aprì una delle bottiglie di
vino bianco che si era portato. Mise in un sacchetto gli avanzi di cibo
da dare ad un cervo che sapeva sarebbe andato a trovarlo. Ormai erano
diventati grandi amici: all’inizio non era stato facile, il cervo era
diffidente e lo guardava con sospetto. Giovanni sistemava gli avanzi
poco lontano da sé, aspettando pazientemente che il cervo si
avvicinasse. Aveva ripetuto la stessa cosa per vari giorni, fino a che
il cervo aveva capito che poteva non avere paura.
Trascorsa una settimana, iniziò la carbonaia.
Costruì prima il “camino”, poi ci appoggiò tutti i tronchi
più grossi e sopra i più piccoli, prese le zolle di terra e le mise
alla base della carbonaia con la parte erbosa rivolta verso la legna.
Ricoprì il tutto con le foglie secche e, infine, con il terriccio.
Nel bel mezzo della costruzione, Giovanni udì una voce, una voce
angelica e dolce: era la sua piccola bambina che , con la mamma e il
fratello, era venuta a portargli nuove provviste e a trascorrere un
po’ di tempo con lui.
Quanto gli erano mancati!
“ E’ dura la vita del carbonaio. Cosa credete voi
taglialegna? Che sia peggio la vostra? A voi non accade mai di stare in
piedi settantadue ore di seguito. Lavorare nei boschi è la sorte
peggiore che possa capitare a un uomo, ma fra il taglialegna e il
carbonaio c’è differenza. La vostra è ancora una vita da cristiani.
È un lavoro faticoso, ma siete in comitiva e la sera vi mettete intorno
al fuoco a far due chiacchiere.”
Dopo circa due giorni, la
carbonaia fu pronta per essere accesa. Salì lungo la “camicia” e
l’accese con piccoli pezzi di legna dall’alto del camino. La
carbonaia “iniziava a vivere”. Ora doveva dimostrare tutta la sua
abilità e il suo intuito nel regolare la “ cottura” della
carbonaia: L’assistenza doveva essere continua e puntuale per evitare
che tutto andasse in fumo. La moglie e i figli lo aiutavano per
lasciarlo riposare dopo le lunghe veglie notturne. Occorreva anche fare
attenzione al vento ed essere svelti nell’aprire e nel chiudere i
fumaioli o “canon” da cui si alimentava la carbonaia.
Trascorsi alcuni giorni, la moglie e i figli dovettero tornare a casa: i
genitori anziani avrebbero potuto avere bisogno di aiuto, i pochi
animali che avevano dovevano essere accuditi.

Giovanni
restò solo a guardare le stelle.
“ E quante stelle!” disse il carbonaio.” Sarà venuto in mente a
nessuno di contarle?” Si mise a ridere: “ solo a un carbonaio
potrebbe venire in mente. Solo noi abbiamo tanta familiarità con la
notte. E’ così, “ disse poi,” a fare i carbonai si diventa…”
Restò lì senza nessuno con cui parlare: parlava da solo oppure alla
bambola di legno che aveva intagliato nei periodi di pausa. Trascorsero
altri dieci giorni: finalmente la carbonaia non “aveva più fame”,
non “urlava più”. Era ora di togliere il carbone
per metterlo nei sacchi. Ora doveva lavorare il povero asinello
che gli avevano lasciato i suoi figli. Dall’alto di un albero uno
scoiattolo lo guardava incuriosito tenendo una noce tra le zampe.
Giovanni si fermò un attimo ad osservarlo: aveva occhietti vispi e
seri, una coda ritta e morbida; il suo fulvo pelo spiccava tra i rami
dell’albero che ancora non voleva lasciare cadere le ultime foglie.
Giovanni si riscosse e riprese il suo lavoro. Il carbone doveva essere
lasciato raffreddare prima di metterlo nei sacchi e di caricarlo sulla
groppa del ciuco.
Finalmente poteva tornare a casa: tutti lo avrebbero visto con molta
barba, sporco, i capelli lunghi, ma molto contento.
La sua bambina gli dirà:- Quando sarò grande, farò il carbonaio come
te!- e lui le regalerà la bambola di legno che, anche quest’anno,
aveva intagliato.
“C’era
una volta…” è un testo collettivo che è servito come traccia per la
realizzazione di un libro su legno, le cui illustrazioni sono la
rielaborazione, fatta dagli alunni dei quadri di alcuni pittori moderni
( espressionisti, naif, impressionisti…).
Le
parti in corsivo sono brani del libro di Carlo Cassola, Il taglio del bosco, ed. Bur

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